lunedì 23 aprile 2012

Naufraghi incoscenti.


Era il primo anno di ferie al mare con la mia fidanzata, poi mia moglie, il 1973. L’avevo conosciuta in marzo a scuola guida all’ACI di corso Venezia a Milano, ci eravamo piaciuti e innamorati.
Non vedevo l’ora di poter trascorrere due settimane con lei al mare a farci coccole, amarci e pescare.
Organizzammo tutto con il mio amico d’infanzia Ruggero a Marzocca di Senigaglia, alla pensione Lori, una pensione che da anni frequentavano i miei zii e che offriva tranquillità, buona cucina ed il vantaggio di essere vicinissima al mare ad un prezzo più che ragionevole.
Partimmo in treno da Milano e il viaggio fù allucinante, sdraiati nel corridoio nella calca caotica dell’esodo agostano.
E iniziarono due settimane da sogno, di giorno in spiaggia, mare, sole, riposo e di sera. . . . . . . . .
Rimaneva il problema di dove andare a pescare, l’automobile non l’avevamo e pescare dalla spiaggia era praticamente impossibile oltre che infruttuoso.
Poi finalmente, gli ultimi giorni vicino a ferragosto, ci raggiunsero i miei zii e i miei genitori . Mio zio Saro aveva un piccolo gommone a motore;  anche lui pescatore appassionato e persino maniaco.
Riuscimmo a fare qualche uscita insieme a lui, Ruggero ed io, e prendemmo qualche sgombro e qualche aguglia a poche centinaia di metri dalla spiaggia.

Un giorno riuscii a farmi prestare il gommone  per fare una battuta di pesca solo noi giovani con la mia fidanzata.
Partimmo alle prime ore del pomeriggio, subito dopo pranzo, e con una sola bottiglia d’acqua, un paio di pinne e tutta l’attrezzatura di pesca demmo gas al fuoribordo per portarci in zona di pesca.
Il mare era calmissimo e senza accorgercene ci allontanammo tanto dalla costa che a fatica riuscivamo a scorgere la spiaggia in lontananza.

All’inizio prendemmo subito del pesce ma poi tutto si fermò e iniziammo a spostarci con il gommone per cercare nuovi branchi.

Passarono le ore e iniziava già a scendere il sole dietro alle colline quando ci imbattemmo in un branco nutrito di sgombri.
Io e Ruggero facevamo a gara a chi ne prendeva di più, Gabriella ci aiutava a staccarli dall’amo e a metterli in un secchio che ci eravamo portati da riva.
Veramente uno spasso, era valsa la pena di affrontare l’arcigno zio per riuscire a farmi prestare il gommone.

Al buio, stanchi, decidemmo di tornare a riva. Smontammo le canne, finimmo l’acqua della bottiglia e , messo in moto il fuoribordo puntammo  decisi verso la costa che ormai si era accesa di mille piccole luci tremolanti.

Riuscimmo a fare poche centinaia di metri e il motore si fermò! Morto !
Tentammo disperatamente più e più volte di farlo ripartire ma non c’era verso. Controllato il serbatoio, non c’era l’indicatore della benzina, ci accorgemmo che era completamente vuoto!
Ci guardammo tutti e tre in faccia e iniziammo a ridere da incoscienti, giovani incoscienti.
I remi in dotazione erano corti, adatti per i piccoli spostamenti per l’attracco ma non certamente per remare a lungo e con  forza in alto mare. Inoltre non c’erano razzi di segnalazione né salvagente!!!

Dal riso passammo di colpo ad una rabbia che ci montava dentro prepotentemente.
Che fare? Niente remi adatti, niente razzi, niente salvagente: solo un paio di pinne e tre ragazzi pieni di forza ma stanchi e assetati.

Iniziammo così a turno a remare, uno con i remi e l’altra con le mani mentre, sempre a turno, io e Ruggero in acqua con le pinne cercavamo di trainare in canotto a nuoto.

L’oscurità scendeva, il mare diventava sempre più scuro e cupo e incuteva timore mentre all’orizzonte il tremolio delle luci si faceva piano piano più nitido e si iniziavano ad intravedere i profili delle case e degli alberghi sul lungomare.

Il ritorno durò un’eternità  e furono ore d’inferno, freddo, umido, sete e una buona dose di paura e di ansia.

A circa cento metri dalla riva scorgemmo sulla spiaggia dei falo che rischiaravano di luce rossastra la sabbia e le sagome di molte persone che scrutavano il mare in attesa del nostro ritorno. Mio padre, che era di natura apprensivo, giustamente aveva chiamato i Carabinieri e una pattuglia era ferma sulla strada.

La prima voce che udimmo fù quella di mio zio che ci apostrofò in modo poco ripetibile anche se una buona dose di responsabilità era anche sua visto che non aveva attrezzato il gommone con le dotazioni di sicurezza dettate dalla legge ma anche dalla prudenza.

Fù l’ultima volta ovviamente che mio zio mi imprestò il gommone e l’ultima volta che usai un’imbarcazione per andare a pescare, sia in mare che in acqua dolce, senza prima essermi assicurato che tutte le dotazioni di bordo fossero presenti e funzionanti.

Quel pesce non lo mangiammo nemmeno ma lo regalammo.

Unica nota positiva, da quell’agosto 1973 quella ragazza che affrontò con me quell’avventura mi rimase legata per la vita. Mia moglie Gabriella che ancora oggi, facendole leggere questo racconto, si è stretta a me ricordando con tenerezza quegli anni giovanili.

Francesco 26/03/2009

Nessun commento:

Posta un commento